Impressioni da Cibus alla ricerca del made in Italy

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Cibus, il più importate salone dell’alimentazione made in Italy, si è chiuso da poco.  Quattro giorni (dal 7 al 10 maggio) sono volati, visto il numero degli espositori e la profondità dell’offerta messa in mostra a Parma. In realtà sono riuscito a rubare solo due giornate al mio solito lavoro di redazione. Lunedì, il giorno d’apertura – con i ministri Catania e Passera che hanno attirato l’attenzione soprattutto di autorità locali e alcune decine fra poliziotti e carabinieri in servizio, per il resto il salone li ha quasi ignorati – e martedì. Ho visitato decine di stand, come sempre sulle tracce del made in Italy. Quello vero.
In realtà alla più importante vetrina dell’alimentare della Penisola il «fatto in Italia» non emerge per nulla. A guardare da qui pare che i 60 miliardi fra pasta, salumi e formaggi spudoratamente imitati in mezzo mondo, non esistano. Il settore va bene, le esportazioni tirano: perché rischiare di rompere il giocattolo per distinguere i prodotti interamente italiani dagli altri (e non sono pochi) in cui la materia prima nostrana si limita alla carta o al cartone dell’imballo? Salumi, latticini, pasta, riso: i nomi e i marchi sono italianissimi. Quel che sta dietro chissà.

Consapevole di fare la domanda sbagliata ho percorso in lungo e in largo i padiglioni di Cibus, proprio per cercare di distinguere fra le migliaia di prodotti quali potrebbero portare davvero il tricolore. Il solito «gioco» che faccio fra i banconi dei supermercati. Solo che a Parma non mi limito solo a leggere l’etichetta, chiedo pure al produttore: da dove arriva la materia prima? Il risultato è stato complessivamente sconsolante. Anche se non mancano i casi di produttori che rivendicano (a ragione) l’italianità della loro offerta, in oltre 8 casi su 10 non si capisce se gli ingredienti impiegati arrivino dallo Stivale oppure da Oltreoceano. Per brevità riassumo il mio viaggio nell’universo alimentare in mostra a Cibus in tre tappe. Tre fermate ad altrettanti stand. Il primo è quello della pasta Rummo dove assaggio delle penne rigate a dir poco strepitose cucinate da uno chef stellato. Buone, buonissime… Merito della lenta lavorazione, mi spiegano i Rummo, giunti a Parma con il look delle confezioni completamente ridisegnato. Il grano? E’ canadese e ucraino, mi dicono, «per fare una pasta così ci vogliono delle farine con caratteristiche speciali e noi, in Italia, non ne produciamo a sufficienza». Resta il fatto che la pasta dell’azienda beneventana è gustosa, mai scotta e ben strutturata. E prende i sughi magnificamente.

Altra tappa altro stand: Pomì. In questo caso l’allestimento è tutto giocato sulla tracciabilità della materia prima. Filiera trasparente, origine certa, con la possibilità di individuare addirittura il campo da cui provengono i pomodori utilizzati per quella determinata confezione. Tutto attorno al perimetro espositivo della Pomì una fila di piantine di pomodoro, vere, verissime, che assomigliano a sentinelle in miniatura. Affogate nelle luci e nei rumori di una kermesse, quella parmigiana, poco incline a parlarti di campi e coltivazioni. Pomì era un marchio della Parmalat, ceduto dall’allora commissario straordinario Enrico Bondi per  far rientrare un po’ di soldi nelle esangui casse della società, depauperate da scelte finanziarie dissennate. A rilevarlo è stato il Consorzio Casalasco che ha trasformato un brand di fantasia in una enclave di vero made in Italy.

Infine – terza tappa – la Levoni di Mantova, per la precisione di Castellucchio. Vi arrivo accaldato e un po’ rintronato da una indigestione di luci e rumori. A differenza di altri salumieri i Levoni utilizzano quasi esclusivamente carni italiane per confezionare salami, prosciutti e insaccati. Il 93% arriva da una filiera rigorosamente made in Italy. Peccato che non sia chiaro a leggere le loro etichette. Ma è un paradosso di cui ho capito tempo fa il senso: se identifichi come «fatto in Italia» un salume, gli altri (in questo caso quelli di molti concorrenti) non si venderebbero più se non a costi molto bassi. E’ lo stesso motivo per il quale neppure i prosciutti dei consorzi – Parma, San Daniele ecc – non si dichiarano esplicitamente italici, nonostante il loro disciplinare di produzione escluda tassativamente l’impiego di carni straniere.
Ecco, il mio diario da Cibus finisce qui, anche se potrei raccontare decine di visite ad altrettanti espositori. Questi tre, Rummo, Pomì e Levoni, riassumono però compiutamente le strade percorse dall’alimentare italiano. E si tratta di percorsi diversi ma tutti ugualmente rispettabili. Ometto volutamente di riferirvi i casi di falsi clamorosi che ho trovato a Parma, nell’olio extravergine, per esempio, e fra i formaggi.

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