Latte, formaggi e salumi: comincia la battaglia dell’etichetta

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Al Ministero delle politiche agricole e forestali (in sigla Mipaaf) si è aperto martedì il primo tavolo per l’etichettatura obbligatoria, quello dedicato alla filiera lattiero-casearia. Quindi latte e formaggi. La posta in gioco è alta: se si eccettua la quota dell’alimento bianco venduto fresco, oltre la metà di quello impiegato in Italia viene importato per la produzione di formaggi. A volte in polvere, a volte addirittura sotto forma di cagliata surgelata.
Immaginate di trovare scritto sulla confezione: “Prodotto con cagliata congelata proveniente dalla Polonia”. Comprereste un alimento che si presenta così?
Al tavolo aperto l’altroieri erano sedute tutte le organizzazioni che partecipano alla filiera. Ecco l’elenco:

  • Coldiretti, Confederazione italiana agricoltori, Confagricoltura, Copagri, Lattitalia, Confcooperative e Lega Coop in rappresentanza del mondo della produzione
  • Assolatte e Federalimentare per l’industria del settore

Mancavano i rappresentanti della distribuzione.
Al tavolo, oltre ai padroni di casa del dicastero di via XX Settembre, sedeva pure una delegazione del Ministero dello Sviluppo, chiamato a partecipare alla stesura dei decreti sulle etichette d’origine.
Si trattava di un primo incontro, una presa di contatto per confrontare le diverse posizioni. Da quel che risulta a Etichettopoli si sono verificate le prime schermaglie fra produttori e trasformatori su un aspetto chiave: la cosiddetta materia prima “prevalente”, prevista dalla legge. Secondo gli allevatori il concetto di prevalenza si applica nei casi in cui – per esempio i formaggi prodotti con latte misto di mucca e di pecora – è necessario individuare quale sia il tipo di componente prevalente. Per l’industria, invece, basta che in un formaggio ci sia il 51% di latte made in Italy per indicare in etichetta “prodotto con latte italiano”. Come potete immaginare la questione non è secondaria.
Il ministero ha chiesto a tutti i partecipanti di inviare una memoria scritta entro una settimana.
Oggi si replica con la filiera dei suini. Ed è prevedibile che pure attorno a questo secondo tavolo allevatori italiani e industriali (rappresentati dall’Assica) si trovino su posizioni diverse. La metà dei prosciutti commercializzati nel nostro Paese viene dall’estero. Stesso discorso vale per la bresaola che di valtellinese spesso ha solo il nome e per la mortadella. Purtroppo i 60 milioni di consumatori italiani non sono in grado di distinguere i finti salumi made in Italy da quelli veri.. Come non siamo stati in grado di capire se la vaschetta di prosciutto che stavamo comperando arrivava per caso dalla Germania mentre stava scoppiando lo scandalo dei mangimi alla diossina venduti da una azienda della Bassa Sassonia.
E dire che ogni anno importiamo almeno 19 milioni di cosce di maiale. Soprattutto da Olanda e Germania.

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