L’emergenza per il virus e l’isolamento durato due mesi hanno moltiplicato sui social media i gruppi dedicati ai cibi 100% italiani. Soprattutto su Facebook ce ne sono alcuni che contano decine di migliaia di iscritti ciascuno. Un bacino potenziale enorme per veicolare messaggi utili ad aiutare i consumatori nel difficile compito di distinguere gli alimenti tutti made in Italy da quelli che di italiano hanno soltanto il nome. E purtroppo sono tanti.

I CONSUMATORI SANNO POCO

La sensibilità verso il 100% Italia non è mai stata così forte come in questi mesi. Purtroppo la preparazione media dei consumatori è scarsa. Anzi, quasi inesistente. E questo è il vero guaio: per portare a tavola alimenti che siano tutti tricolori bisogna sapere cosa cercare, vale a dire la dichiarazione d’origine. Ma non basta. Bisogna sapere su quali prodotti è prevista e su quali, al contrario, può non esserci. E in questo secondo caso cosa cercare in alternativa per capire il Paese di provenienza degli ingredienti.

Di solito, a questo punto del ragionamento, 9 consumatori su 10 si sono scocciati. Voltano idealmente pagina, chiudendo il link dell’articolo che stanno leggendo per rituffarsi nella consueta insipienza. «Perché mi devo rompere le scatole tanto a cercare la pasta o l’olio extravergine 100% italiani? Compero la solita marca o quella che costa meno, tanto è sempre roba italiana». Il ragionamento che leggo tra le righe dei commenti ai post che pubblico è più o meno questo.

Ma per una volta non mi rivolgo ai consumatori. Quanto ai produttori di derrate alimentari. Agricoltori, allevatori, olivicoltori e affini. Ai quali pongo domande precise: voi cosa fate per cambiare la percezione distorta del made in Italy a tavola, all’origine degli equivoci che spingono i consumatori a compiere scelte errate? Fate qualcosa? Vi siete mai posti il problema di come informare correttamente chi acquista per aiutarlo a distinguere fra veri e finti cibi italiani?

DENIGRAZIONE SISTEMATICA

Personalmente temo che in pochi fra i produttori agricoli si siano posti il problema. E ancor meno abbiano fatto qualcosa di concreto per porvi rimedio. Mentre nei gruppi dei consumatori – penso soprattutto ai gruppi di Facebook – va in scena l’equivoco «marca italiana uguale prodotto italiano», agricoltori e allevatori sono impegnati soprattutto nella denigrazione sistematica degli alimenti prodotti industrialmente.

Così i formaggi fatti con il latte della Baviera fanno schifo perché il latte tedesco è tutto scadente (falso) e anche se non lo fosse alla partenza lo diventa dopo un trasporto che dura parecchie ore (falso pure questo). L’extravergine «origine Ue» in realtà è tutto sofisticato, fatto con olio lampante rettificato o peggio con olio di semi addizionato di clorofilla. La frutta spagnola in realtà non è spagnola ma arriva dal nord Africa ed è piena di pesticidi, la carne tedesca è gonfiata con gli ormoni (che sono vietati nella Ue dal 1996), la pasta che dichiara in etichetta «Paese di coltivazione del grano: Italia» non può essere fatta con grano italiano perché ne abbiamo pochissimo, quando il tasso di auto approvvigionamento arriva al 73%.

È TUTTO TAROCCO

Mentre fra i consumatori regna la massima confusione su cosa sia 100% Italia e come distinguerlo, i produttori rispondono con un messaggio che si può riassumere così: le etichette d’origine dei prodotti alimentari sono tutte false. Non fidatevi! Questa polarizzazione finisce per scavare un vallo insuperabile fra le due metà del mondo alimentare, chi produce e chi consuma. E anche qualora il messaggio distruttivo dei produttori («è tutto tarocco») arrivasse a segno, potrebbe soltanto produrre effetti negativi. Se la presentazione dei cibi che metto abitualmente nel carrello è mendace – così finiscono per pensare i consumatori sensibilizzati dal messaggio distruttivo dei produttori – perché dovrei affannarmi tanto a leggere l’etichettatura d’origine alla ricerca del Paese di provenienza degli alimenti che acquisto? E proseguono nell’equivoco, portando a casa vagonate di cibi che di italiano hanno nella migliore dei casi solo la confezione.

Non è la prima volta che affronto questo tema. Di recente ho scritto del made in Italy che non piace perché è fatto dai grandi gruppi e prima ancora dell’olio extravergine venduto in offerta ai supermercati che «non può essere olio d’oliva perché io che lo produco a quei prezzi non ci pago nemmeno la bottiglia, il tappo e l’etichetta».

L’ILLUSIONE DEL PREZZO IMPOSTO (PER LEGGE)

Naturalmente, sul versante della produzione di derrate alimentari, non mancano le organizzazioni che hanno ben presente la delicatezza del tema e la necessità di comunicare messaggi chiari e comprensibili per valorizzare le produzioni italiane. Ma sui social media finiscono pure loro nel tritacarne allestito dai pasdaran del «tutto falso, tutto tarocco». Per tacere dell’acredine riversata da molti sulle «sindacali», accusate di ogni nefandezza possibile, per non essere riuscite a strappare ad esempio un prezzo minimo imposto «per legge» su latte, olio, frutta, verdura, carne, cereali e via dicendo. Quando il prezzo minimo fissato per legge non è neppure pensabile perché le autorità Antitrust europea e italiana non consentirebbero neppure di approvare norme destinate a stabilire ex lege il valore di mercato di un bene o un servizio. Figuriamoci di applicarle.

Alla fine questa incoerenza di fondo finisce per favorire i furbi. Grandi o piccoli che siano. I venditori di «made in Italy ma non troppo» che puntano proprio sull’equivoco «marca italiana uguale prodotto italiano» per inondare gli scaffali dei supermercati con i loro prodotti. Tutto rimane com’è. I consumatori continuano a inzeppare i carrelli con cibi che di italiano hanno poco o nulla e i produttori a lanciare i loro anatemi conditi spesso da contumelie irriferibili verso chi osa mettere in dubbio la loro personale teoria del complotto.

I taroccatori, naturalmente, festeggiano. E ringraziano.

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