Mentre sui gruppi di Facebook dedicati ai cibi made in Italy imperversano le foto di piatti cucinati con ingredienti importati da chissà dove, c’è una parte dei navigatori social pronta a sparare a palle incatenate sui big dell’alimentare che si sono convertiti al made in Italy. Abbiamo rotto le balle per vent’anni – mi ci metto anch’io, in prima fila – sull’importanza di poter riconoscere l’origine dei cibi che portiamo a tavola e ora che anche i grandi produttori hanno deciso di puntare sul 100% italia non va bene?

Sembra un paradosso ma è così. Se a produrre un formaggio di solo latte italiano è un piccolo artigiano che magari utilizza il latte delle sue vacche va bene, ma se ad acquistare il latte italiano è ad esempio la Galbani (che poi è la Lactalis francese) allora no. Va male a prescindere. E chiunque si azzardi a difenderla va colpito senza pietà. Una specie di processo alle intenzioni in cui riconoscere e apprezzare lo sforzo dell’industria che scommette sulle filiere trasparenti e tutte italiane è ritenuto una colpa grave.

La stessa sorte perversa accomuna un buon numero di grandi gruppi alimentari. Colpevoli di essere appunto grandi o di essere, magari, stranieri. Barilla, Ferrero, Galbani, Saiwa, McDonald’s, giusto per citare i casi più noti e clamorosi. Quanti li colpiscono con anatemi come se fossero bombe atomiche, capaci di radere al suolo un’intera provincia, sono gli stessi che magari si affannano a postare foto di piatti succulenti,  fatti però con ingredienti che di italiano non hanno nulla. Linguine allo scoglio con cozze e vongole in arrivo dal banco frigo del supermercato, rigorosamente senza origine, pasta ottenuta da grano coltivato magari in Canada e Arizona, pizza ai quattro formaggi il cui ingrediente primario, il latte, se va bene arriva dalla Baviera, tiramisù gonfi di biscotti totalmente anonimi da far impallidire i tarocchi del discount.

Ma i cibi «oriundi» vanno bene, per il solo fatto di essere cucinati a casa. Mentre se a confezionare o a somministrare un alimento 100% Italia è uno degli esponenti storici di big food, allora va colpito. A prescindere. È un obiettivo cui lanciare contro tutto ciò di cui si dispone. E se ti azzardi a raccontare la verità che peste ti colga! Nel migliore dei casi vieni accusato di pubblicità occulta. Nel migliore, però.

IGNORANZA PREMEDITATA

Di solito questi comportamenti affondano le radici in una ignoranza profonda. Non si conoscono i meccanismi che regolano l’etichettatura d’origine dei cibi. Non si sa bene cosa può esserci scritto sulle confezioni degli alimenti. Quali debbano recare l’indicazione d’origine dell’ingrediente primario e quali, al contrario, possano conservare l’anonimato. Ma non è importante poterli distinguere. Anzi: questi pasdaran del «piccolo è bello e grande fa schifo», coltivano con amore la loro ignoranza. Alla peggio, se messi alle strette, estraggono dal mazzo l’asso piglia tutto: «Le etichette sono tutte false». Coglione io a leggerle. Non ci sono argomenti. Non valgono nemmeno le categorie aristoteliche della conoscenza. A può essere diverso da A. Oltre duemila anni di storia del pensiero buttati nel letamaio.

IL CASO BARILLA

Del caso Barilla ho scritto recentemente (ecco l’articolo), ma lo riassumo in breve. Da gennaio di quest’anno il gruppo di Parma si è messo a produrre una linea di pasta, i Classici, fatta con grano 100% italiano. È facilmente distinguibile dall’altra perché ha la scatola azzurra anziché blu e sulla confezione indica in maniera inequivocabile il Paese di coltivazione del grano duro: l’Italia. Ma non va bene lo stesso, «Ho letto articoli che dicono il contrario» (e giù link il più recente dei quali risale al giurassico). «Mi risulta che la Barilla sia cinese», anzi, no, «è americana e fa arrivare tutto il grano dall’Arizona». E ancora: «Mio zio fa il trasportatore e riempie i magazzini periferici di Barilla di grano importato». E poi arriva il jolly, buono per tutte le mani: «Le etichette sono tutte false».

Guai a confutare questi teoremi. Si riesce soltanto a scatenare una rabbia atavica. Il gruppo di Facebook dove ti affanni a raccontare la verità, reagisce. E comincia a martellarti di commenti folli. Attacchi personali. Insinuazioni odiose. Sospetti terribili. Se non bastano i leoni da tastiera vengono schierati pure i parenti. E financo le fidanzate. L’obiettivo è uno solo: costringerti ad abbandonare il gruppo perché i fatti che racconti turbano la mistica anti industriale. Barilla non può produrre pasta 100% italiana perché era e deve restare un bersaglio. Amen.

LA CONVERSIONE DI GALBANI

Per almeno un decennio la Galbani, acquisita dal colosso francese Lactalis di proprietà della famiglia Besnier, è stata nel mirino di allevatori e consumatori per l’utilizzo disinvolto di latte importato. Di recente però quasi tutte la marche italiane controllate dai francesi si sono messe a produrre soprattutto formaggi con latte munto in Italia. Dal Belpaese alla Certosa e al Certosino, dal Galbanino alla Mozzarella e al Mascarpone Santa Lucia: tutti formaggi che dichiarano «latte 100% italiano». Senza dimenticare i prodotti a marchio Vallelata, dalla Mozzarella di Bufala Campana Dop alla Robiola Fresca e ai Bocconcini di mozzarella. E poi  le Dop Cademartori, Taleggio e Quartirolo Lombardo, e i Gorgonzola ugualmente Dop Galbani e Gim. Decine di prodotti, molti a filiera certificata e parecchi a Denominazione d’origine protetta, fatti con materia prima che esce dalle nostre stalle. Ma non va bene lo stesso. Certo non tutto quello che si fa nei caseifici italiani di Lactalis è 100% Italia, ma sulle confezioni è indicata chiaramente l’origine della materia prima e se la stragrande maggioranza dei consumatori non legge l’etichetta non è certo colpa dei Besnier. 

Ma pure in questo caso si arriva a negare l’evidenza dei fatti. Galbani, come Barilla, è un colosso, di proprietà per di più francese e dunque non è possibile che produca formaggi tutti italiani. Se fai notare il dettaglio dell’etichettatura d’origine diventi automaticamente complice del complotto mondiale per fregare i consumatori italiani. E giù insulti, insinuazioni, accuse, contumelie di ogni tipo. Guai a turbare le sacre balle dei pasdaran anti industria!

I BISCOTTI ORO SAIWA

Diverso è il caso dei biscotti Oro Saiwa, un pezzo di storia della produzione dolciaria italiana. L’azienda, fondata a Genova nel 1900 da Pietro Marchese con l’acronimo si Società Accomandita Industria Wafer Affini, Saiwa appunto, è passata di mano diverse volte negli ultimi decenni finendo in pancia ad alcune multinazionali. Prima alla Danone, poi alla Nabisco e infine alla Kraft Foods che nel decennio scorso ha assunto la denominazione di Mondelez International, attuale proprietario di tutte le attività Saiwa, incluso lo stabilimento di Capriata d’Orba, in provincia di Alessandria. 

Di recente l’azienda ha iniziato a produrre i biscotti Oro Saiwa Classici soltanto con farina di grano 100% italiano. Dichiarando chiaramente l’origine dell’ingrediente primario sulla confezione. Un passaggio importante perché ha rappresentato un punto di svolta in un mercato, quello dei prodotti da forno, dominato dai cibi anonimi. Fra l’altro gli Oro Saiwa sono fra i biscotti più venduti in assoluto e proprio con l’isolamento scattato per l’epidemia di coronavirius sono stati assieme al mascarpone fra gli ingredienti più acquistati dagli italiani per fare il tiramisù, in alternativa ai savoiardi.

Finora però la conversione tricolore della Saiwa per il prodotto di punta (gli altri restano fatti anche con farina di grano importato) non ha scatenato la consueta ondata di indignazione. Forse perché quasi nessuno associa lo storico marchio italiano a una multinazionale, Mondelez appunto, che nel 2019 ha realizzato nel mondo un fatturato netto di quasi 26 miliardi di dollari. Ma è soltanto una questione di tempo. Quello necessario ai pasdaran del «grande fa schifo, è brutto e va combattuto» per accorgersene. Sono lenti e bisogna dar loro il tempo di realizzare pensieri complessi, ma ci arriveranno di sicuro. Purtroppo.

GLI HAMBURGER ITALIANI DI MCDONALD’S

E poi c’è il «male assoluto», McDonald’s, la catena mondiale di fast food, accusata di ogni nefandezza possibile per il solo fatto di essere una multinazionale, per di più americana, portatrice di un modello alimentare da avversare in ogni modo. Al colosso di San Bernardino (California) vengono addebitate colpe di ogni genere. Dalla deforestazione in Amazzonia allo sfruttamento dei bambini lavoratori nel sud est asiatico. McDonald’s è colpevole «a prescindere». Ricordo bene l’ondata di indignazione che travolse l’Expo 2015 quando si scoprì l’esistenza di un padiglione riservato alla catena di fast food. Poco importa che gli hamburger serviti nel nostro Paese dal leader mondiale dei panini siano fatti tutti rigorosamente con carne che esce dagli allevamenti italiani e siano frutto di una filiera tracciabile al massimo in 3 ore. Poco importa se all’edizione 2018 del Forum Coldiretti di Cernobbio, McDonald’s Italia abbia firmato un protocollo con Coldiretti, Associazione italiana allevatori e Inalca (il colosso delle carni di Cremonini) per fornire materia prima proveniente da capi nati, allevati e macellati nello Stivale. Un accordo storico per dare origine a quel che si dice una filiera socialmente sostenibile. Ma visto che a sottoscriverlo è il Satana dei panini, non vale. Non può esistere. Tutta la carne che vende è taroccata, fa male e sicuramente non è italiana. E via che partono le ingiurie.

hamburger McDonald's

FERRERO, LE NOCCIOLE ITALIANE CHE FANNO MALE ALL’AMBIENTE

Ma c’è stato negli anni scorsi un altro caso che ha tenuto banco a lungo. Sui social e non solo. Parlo della Ferrero e dei  numerosi accordi di filiera sottoscritti in Italia con i nostri agricoltori per creare dal nulla una filiera delle nocciole tutte tricolori. Un piano importante che riveste pure una valenza strategica. Le nocciole per fare la Nutella arrivano dal maggior produttore mondiale, la Turchia, ma con l’aria che si respira nel Paese della mezzaluna Giovanni Ferrero ha pensato bene di assicurarsi una produzione di nocciole made in Italy. Pure in questo caso gli accordi sottoscritti con i coltivatori sono stati numerosi e puntano a realizzare una filiera sostenibile, capace di garantire un margine adeguato a chi abbia deciso di piantare i noccioleti, spesso in terreni collinari o pedemontani abbandonati da tempo.

Ferrero nocciole italiane

VADE RETRO HOMO SAPIENS!

Tutto bene? Assolutamente no, perché la monocoltura della nocciola insidierebbe la biodiversità, prendendo il posto di boschi spontanei infestati da rovi e piante parassite di ogni genere. E poi i filari di betulacee turberebbero il paesaggio preesistente al loro impianto, frutto di un abbandono progressivo che è il testimone silente di una rivincita della natura sull’habitat umanizzato. Vade retro homo sapiens!

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