Le 7 regole d’oro per non farsi ingannare dalle nuove etichette europee

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Da dove viene questo prodotto? Chi lo ha confezionato? E a partire da quali materie prime? La risposta a questi tre semplici interrogativi si è trasformata in un indovinello. Senza soluzione, per almeno un prodotto su due fra quelli che acquistiamo al supermercato. Pasta, riso, salumi o formaggi (non Dop né Igp), conserve vegetali e animali, sughi di pomodoro, surgelati: al di fuori di una stretta cerchia di referenze riconducibili alle denominazioni d’origine e a poc’altro, è molto più difficile stabilire il Paese d’origine della materia prima e quello in cui il prodotto è stato trasformato e confezionato. Effetto delle nuove etichette europee divenute obbligatorie dopo l’entrata in vigore, il 13 dicembre scorso, del regolamento Ue numero 1.169 del 25 ottobre 2011, (qui potete scaricare il documento in formato pdf).

Non è la prima volta che ne parlo. All’inizio di novembre ho pubblicato sul blog una guida all’acquisto con indicazioni precise per ogni famiglia di prodotto (ecco il post). Questa volta ho messo assieme un numero di regole utili, al momento di fare la spesa, per non cadere nel tranello delle etichette mute. Le nuove disposizioni comunitarie, in pratica, hanno abolito l’obbligo di indicare chiaramente lo stabilimento di produzione o trasformazione. Cancellando l’ultimo indizio utile al consumatore per comprendere da dove provenga quanto sta per mettere nel carrello. Ecco in sintesi le 7 regole d’oro per non lasciarsi ingannare.

tetrapak packages1)  CONFEZIONE. Leggere con la massima attenzione possibile tutte le informazioni riportate sulla confezione. Non è detto che l’indicazione d’origine o la provenienza delle materie prime (ove siano presenti) si trovino nel medesimo campo visivo della marca o della denominazione. In almeno 8 casi su 10 si trovano nel retro, magari nascoste in mezzo a decine di altre informazioni più o meno utili. Verificare anche su tappi e congegni di chiusura. Mai buttare le confezioni accoppiate a quella principale, ad esempio nei formaggi fusi, nelle mozzarelle o nei budini. Lì potrebbe trovarsi addirittura la data di scadenza. Inutile leggere il codice a barre o il Qr code perché solitamente indicano il titolare italiano del marchio. Nulla sull’origine prima del nuovo regolamento Ue, nulla adesso.

 Kokarde Italien mit Stoffbändern2) TRICOLORE. Mai fidarsi di bandierine, nastri o coccarde tricolori. Da soli, purtroppo, non raccontano nulla, men che meno sull’origine delle materie prime o sul luogo di lavorazione. È rimasto negli annali della storia alimentare italiana il caso di una nota marca di pasta italiana, che utilizza un nastro bianco, rosso e verde, assieme a un disegno di trulli pugliesi, pur ammettendo di utilizzare anche materie prime importate. Da una rilevazione empirica che ho svolto proprio su spaghetti e maccheroni, risulta che per lo meno il 20% riporta in etichetta segni e illustrazioni fuorvianti sul prodotto o sulla sua origine.

3) MADE IN… Fatto in Italia, prodotto italiano, made in Italy: purtroppo queste diciture non garantProdotto Italianoiscono in alcun modo che il prodotto sia davvero dello Stivale. Men che meno che lo sia al 100%. In assenza di norme aventi valore di legge capaci di regolarne l’utilizzo, il «made in…» viene indicato su base volontaria e non è vincolante sulla reale origine delle merci né delle materie prime utilizzate. L’ultimo tentativo per introdurre una norma in merito risale al decennio scorso: la legge non entrò mai in vigore perché la Commissione europea l’ha bocciata con un parere circostanziato sostenendo che rappresentava «un ostacolo alla libera circolazione nel mercato unico».

igp-logo 4) DOP & IGP. Per ogni prodotto a denominazione d’origine che si trova sui banconi dei supermercati, ne esiste per lo meno uno «tarocco» che proviene sicuramente dell’estero, anche se non è riconoscibile. Formaggi, prosciutti e salumi in genere, ma anche pasta e perfino pane. Negozi e supermercati sono il regno delle imitazioni. Quando sono in commercio specialità con il bollino Dop o Igp e si trovano in vendita frammiste ad altre che non lo hanno è bene dubitare di queste ultime. Attenzione a non lasciarsi confondere da banconi ed espositori dove gli alimenti dall’origine incerta, con nomi rigorosamente italiani, sono mischiati agli originali.

5) SUPERSCONTI. In presenza di sconti capaci di dimezzare il prezzo al pubblico di un prodotto è bediscountne dubitare su origine e qualità. Quando un alimento viene venduto a un valore che scende al di sotto del costo all’origine della materia prima si rischiano solenni fregature. Ed è bene approfondire. Chiunque può informarsi sul sito dell’Ismea che per la maggior parte dei prodotti agricoli riporta le quotazioni medie settimanali. Ribassi importanti nei cartellini non significano necessariamente una fregatura: produttori e grande distribuzione vendono talvolta sotto costo ad esempio per liberare i magazzini o acquisire nuova clientela. Un’occhiata in più all’etichetta però non fa male.

Brand Blue6) MARCA. Una marca italiana non garantisce che il prodotto sia made in Italy al 100 per cento. Anche brand storici impiegano regolarmente materie prime d’importazione. Esemplare il caso dell’olio extravergine: 9 referenze su 10 fra quelle che si trovano abitualmente in vendita impiegano oli extravergini «comunitari». Eppure meno di un consumatore su 4 è cosciente di acquistare un prodotto non italiano. Potenza del brand. Un andazzo che premia la politica dell’industria alimentare: non importa da dove arrivino gli ingredienti, la garanzia sta dalla marca. Fidarsi è bene, non fidarsi è meglio.

7) INDICAZIONE. Dove l’origine non è indicata chiaramente, la materia prima è raramente italiana e spesso anchebarcode of grass la lavorazione o il confezionamento sono avvenuti all’estero. Succede così con il latte. Mentre per il fresco è vincolante indicare la provenienza dell’ingrediente, su quello Uht l’obbligo viene a cadere. Ed è facile mettere nel carrello cartoni dell’alimento bianco munto ad esempio in Polonia o Germania. Senza saperlo. L’indicazione dello stabilimento di confezione garantiva la possibilità di tracciare almeno l’ultima fase della lavorazione. Ora che è caduto anche quest’obbligo, diventa sempre più difficile capire cosa portiamo in tavola. Un motivo in più per scegliere il latte fresco.

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