Per la Cassazione il marchio prevale sul Paese d’origine. Così una giacca romena diventa italiana

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Non è reato indicare nell’etichetta il nome di un’azienda italiana, anche se un capo d’abbigliamento è stato realizzato all’estero. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con la sentenza emessa il 28 maggio scorso.

Ho scoperto la notizia sul portale Laleggepertutti.it, una risorsa web molto documentata. La sentenza della Suprema Corte riguarda un’azienda di Treviso che ha importato delle giacche per bambino dalla Romania, mettendole in commercio con la dicitura «Prodotto e distribuito dall’azienda Tal dei Tali». Il nome della società, come sempre nelle sentenze della Cassazione, è sostituito da una sigla, ma si fa presto a capire di quale marchio si tratti.
Ebbene,  se l’azienda italiana che ha importato le giacche dalla Romania non scrive anche «made in Italy» sull’etichetta non commette alcun reato. «Non è sufficiente», scrivono i giudici nella sentenza, «la mera indicazione del nome o del marchio della ditta produttrice o dove essa ha sede».
Se ad esempio il sottoscritto importasse dei cappotti dalla Cina e scrivesse in etichetta: «Prodotto e distribuito da Barbieri Spa, Milano», non rischierebbe alcuna sanzione. Anzi: la Barbieri Spa sarebbe perfettamente nel giusto. Personalmente sono dell’idea che le sentenze  – per quanto paradossali – più che commentate vadano analizzate. Non dai giornalisti ma dai giuristi. E mi attengo a questa regola pure in questo caso.
Tempi durissimi per chi si batte per la dichiarazione d’origine e l’etichetta trasparente.
A titolo d’informazione la sentenza di cui parlo è la numero 1.072 ed è stata depositata il 28 maggio 2013.

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