Maroni: “Nuovi iper solo con prodotti italiani”. Già, ma come riconoscerli?

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Nuovi centri commerciali in Lombardia solo se vendono prodotti italiani. Lo ha annunciato il governatore della Regione Roberto Maroni (foto Niccolò Caranti) sabato scorso, 4 maggio, nel corso di Cibi d’Italia, manifestazione della Coldiretti al Castello Sforzesco di Milano. “Stiamo preparando una legge – ha spiegato Maroni – per dare attuazione a quel punto del programma sulla moratoria nell’apertura di grandi centri commerciali fino a che si farà un monitoraggio. In questa legge voglio mettere un passaggio che subordina la concessione di nuove autorizzazioni al fatto che questi nuovi grandi centri commerciali vendano prodotti italiani, nell’agroalimentare in particolare”. Per rafforzare l’iniziativa il governatore lombardo sta “pensando di sottoscrivere un protocollo con la Coldiretti per promuovere la vendita dei prodotti italiani” nelle grandi strutture di commerciali. “Anche su questo la Regione Lombardia vuole diventare apripista: nuovi grandi centri commerciali sì solo se vendono prodotti italiani nell’agroalimentare”, ha concluso l’ex ministro dell’Interno.
Tutto molto bello. C’è però un dettaglio che il leader del Carroccio sta trascurando: come riconoscere i veri prodotti italiani da quelli finti? Oltre l’80% delle referenze in vendita sui banconi dei supermercati è finto made in Italy, prodotto anche da marchi storici della nostra tradizione alimentare ma con materie prime che arrivano da ogni parte del mondo. La pasta è fatta soprattutto con grano duro canadese e ucraino, l’extravergine con olio nominalmente comunitario ma spesso proveniente dal nord Africa, i formaggi con latte tedesco e perfino polacco.
Qualcuno spieghi a Maroni che la valorizzazione del vero made in Italy passa proprio dalla sua riconoscibilità attraverso l’etichettatura d’origine, avversata con ogni mezzo dalla grande industria alimentare. Pure da quella italiana. La Federalimetare, come ho documentato nel post (eccolo qui) precedente, rivendica il diritto di confezionare i prodotti italiani a migliaia di chilometri dai nostri confini, con ingredienti e manodopera stranieri. Per non parlare poi delle decine di migliaia di referenze etichettate come italiane e fatte qui, ma che tali sono solo nella confezione. E forse neppure in quella.
Mi risulta che il neoassessore regionale all’Agricoltura Gianni Fava abbia annunciato proprio la costituzione di una task force sulla tracciabilità. Cosa abbia in animo di tracciare lo ignoro visto che la stragrande maggioranza delle etichette sono reticenti quanto all’origine degli ingredienti. E sono tali in forza di regolamenti comunitari volti proprio a preservare l’opacità degli alimenti che portiamo in tavola ogni giorno per non recare intralcio all’industria e ai produttori di materie prime tedeschi, olandesi e dell’est Europa.
Fra l’altro un passaggio decisivo per la sopravvivenza del vero made in Italy si giocherà proprio a Milano con l’Expo 2015. Ma questa è un’altra storia che racconterò nel prossimo post.

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